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Le “altre” bollicine italiane

Quando si pensa all’eccellenza spumantistica italiana, le due denominazioni che subito arrivano alla mente sono Franciacorta e Trentodoc. Indubbiamente due punte di diamante ma il panorama tricolore spumeggiante non termina certo qui.

Il nome emergente è Alta Langa DOCG, che poi di novità ha ben poco visto che proprio a Canelli ci fu il primo tentativo di Metodo Classico nel nostro Paese, precisamente nel 1865 ad opera del Cav. Carlo Gancia, utilizzando uva moscato.
La novità risiede nel fatto che i produttori hanno iniziato a credere sempre più nei loro mezzi e nell’unicità del territorio in cui sono presenti i vigneti, le province di Asti, Alessandria e Cuneo, soltanto nelle colline più vocate ad altitudini non inferiori a 250 m slm. Suoli calcarei adatti alla viticoltura e grandi escursioni termiche, che regalano eleganza a pinot nero e chardonnay.
Il Piemonte del vino non ha certo bisogno di troppe presentazioni, famoso nel mondo per i due rossi Barolo e Barbaresco, apprezzato anche per la briosa aromaticità del Moscato d’Asti, senza dimenticare le semplici e immediate suggestioni di Barbera e Dolcetto. L’attitudine di questa Regione a produrre eccellenze la dimostra però anche nello Spumante Metodo Classico, in cui ogni anno si registrano incrementi della superficie vitata e numero di bottiglie in commercio.
In un Paese come il nostro, dove la concorrenza nelle bollicine è spietata, basti pensare a Prosecco, Franciacorta o Trentodoc, senza scomodare i cugini francesi, perché si dovrebbe privilegiare l’Alta Langa? Quali gli elementi distintivi che la rendono riconoscibile e dunque preferibile rispetto ad altri territori?
Sicuramente la longevità, sono spumanti che nella maggior parte dei casi sopportano lunghissimi affinamenti sui lieviti e che resistono bene al tempo anche dopo la sboccatura. Quindi ottima struttura e corpo. Merito del pinot nero in particolare, che in queste colline calcaree riesce a dare il meglio di sé.
Altra considerazione è che i Metodo Classico Alta Langa, da disciplinare, sono espressione di una singola vendemmia, per cui le bottiglie ne riflettono l’andamento climatico con i suoi pregi, difetti e peculiarità. Questo rende più affascinante la beva per la sua variabilità, concetto non gradito ad esempio al popolo anglosassone, che preferisce le cosiddette cuvée, in cui ogni anno lo chef de cave cerca di ottenere lo stesso risultato tramite gli assemblaggi.
Infine altri elementi caratterizzanti sono il volume, l’ampiezza del gusto e la ricchezza aromatica. Concentrandomi proprio su questi aspetti, ho sempre ritenuto l’Alta Langa uno spumante gastronomico che richiede cibi strutturati.

 

Un’altra zona italiana dal chiaro imprinting spumeggiante è l’Oltrepò Pavese, un’area vitivinicola a forma di grappolo d’uva, non a caso direi, in provincia di Pavia a sud del Po. Grandi personaggi come Gianni Brera, Luigi Veronelli e Mario Soldati scrissero di questa terra, addirittura di un vino che tocca l’anima.
Nell’Oltrepò Pavese convivono sia prodotti semplici e divertenti come la frizzante Bonarda, bianchi ammalianti come il Riesling ma soprattutto un’eccellenza spumantistica, il Pinot Nero Metodo Classico DOCG.
Un territorio ottimale per la coltivazione di questo vitigno, con sottosuoli composti di arenaria e in qualche caso di gesso e calcare, ricchi di sali minerali.
Il clima è mite e temperato, con ampie escursioni termiche tra notte e giorno, ventilato d’estate e asciutto d’inverno. Particolarmente adatto alla coltura della vite grazie al territorio collinare e alla presenza di fiumi e torrenti.
Una tradizione antica quelle delle bollicine, nel 1865 il primo rudimentale tentativo, partendo da barbatelle di pinot nero selezionate in Francia. Poco altro questo vino ha da spartire con i nostri cugini d’oltralpe, territori diversi, suoli più ricchi e clima soleggiato. Nell’Oltrepò Pavese il Pinot Nero spumeggiante si fa più carnoso, materico ed un ottimo modo per gustarne il suo carattere autentico è provarlo nella versione rosata Cruasé, termine nato dall’unione delle parole “cru” e “rosé”. Non è un banale concetto di marketing ma la veste moderna di un’antica tradizione vitivinicola lombarda dell’Oltrepò Pavese, un modo verace di esprimere la vinosità e la ricchezza del Pinot Nero.

San Severo. I vigneti della cantina D’Araprì.

Benché si associ il concetto di freschezza dei vini spumante al Nord Italia, anche nel Meridione stanno nascendo ed in alcuni casi rinascendo areali che convincono sempre più i consumatori. Prima tappa del nostro viaggio, la Puglia, zona della Capitanata, distretto di San Severo. Ci troviamo nell’antica Daunia, incorniciata dai monti e degradante nell’ampia zona pianeggiante del Tavoliere.
Le pianure e le colline del Foggiano, temperate dalle brezze marine, sono zone ricche di vigneti, nelle quali si producono soprattutto vini delicati. Da qualche anno, grazie all’esempio dell’azienda D’Araprì, è nato un movimento legato al Metodo Classico, in particolare da bombino bianco. Di questo vitigno se ne sente parlare veramente poco, appartiene alla famiglia dei trebbiani ed ha acquisito dei nomignoli molto curiosi da quando ebbe una più che discreta diffusione a partire
dagli anni ’60. Famoso è quello che prende in Romagna: Pagadebit. Solitamente vini molto neutri negli aromi ma ben carichi di acidità, ecco perché nella spumantizzazione riescono ad esprimersi nella loro pienezza.

Nel Sud delle bollicine esiste anche un territorio che non ha uguali nel pianeta, una montagna, un vulcano attivo di oltre 3.000 metri, collocato nella torrida Sicilia, l’Etna. Qui troviamo una una viticoltura estrema, con vigneti che si inerpicano negli scoscesi pendii, fino a 1.000 metri d’altitudine.
L’attività vulcanica e le pendenze dei terreni, per buona parte terrazzati, donano una sfumatura eufemistica all’espressione “viticoltura eroica” ma anche un carattere unico nel bicchiere. Con l’uva rossa tipica della zona, il nerello mascalese, con cui si producono, soprattutto nel versante nord, i famosi rossi strutturati e minerali, prendono forma anche interessanti Blanc de Noirs. Nonostante la tipologia Metodo Classico sia stata introdotta solo dal 2011 nel disciplinare Etna DOC, la tradizione è cominciata ben prima. Già alla fine del ‘800 qualche entusiasta ribattezzò “Champagne Etna” i primi rifermentati da pinot nero proposti dal Barone Felice Spitaleri, quelli autoctoni, invece, da nerello mascalese risalgono agli anni ’80, con la firma della Cantina Murgo. Questo è un vitigno tardivo che in genere si vendemmia nella seconda o terza decade di ottobre ma per la tipologia Spumante la raccolta avviene solitamente a fine settembre, prima della piena maturazione. Il Metodo Classico che ne deriva ha grande acidità e sfumature gusto/olfattive così minerali e sulfuree che spesso prevalgono sulla componente fruttata e floreale.

Altra nota su un vino bianco antico che sta vivendo una seconda giovinezza, l’Aversa Asprinio DOC in Campania. Mario Soldati lo descriveva così: “questo grande piccolo vino profuma di limone, è di una secchezza totale, sostanziale, che non lo si può immaginare se non lo si gusta”. Ha infatti una peculiare acidità che lo rende quasi aspro, da qui il nome del vitigno asprinio. L’elemento caratterizzante del territorio aversano è il suolo di origine vulcanica riconducibile all’area flegrea, composta da tufo giallo e grigio, da lapilli, pozzolane e cenere. Ciò consente di ottenere un vino che si presta ad essere spumantizzato con successo, sia Metodo Classico che Charmat.
Singolare ed affascinante il sistema di allevamento tradizionale ad alberate, di origine etrusca ed unico nel suo genere. Consiste nel far arrampicare i tralci delle viti intorno ad alti pioppi od olmi, che fungono da tutori, raggiungendo anche i 20 metri di altezza e formando vere e proprie barriere vegetali, chiamate vigne maritate. Per la vendemmia si utilizzano strette e alte scale di legno, e sono richieste capacità di equilibrismo a contadini esperti, chiamati in loco “uomini ragno”. Tale sistema consente di conservare un alto grado di acidità all’uva, desiderabile in un ottimale processo di spumantizzazione.

I colli di Conegliano Valdobbiadene

Infine sua maestà Prosecco! Un termine che cela un universo e che meriterebbe di essere approfondito maggiormente, dato che nel nostro Paese è diventato uso comune chiamare “prosecchino” tutto ciò che spumeggia. Iniziando dalla definizione tecnica, si tratta di uno Spumante Metodo Charmat, per cui rifermentato in autoclave e non in bottiglia come nei Metodo Classico, prodotto principalmente in Veneto. Nel vino Prosecco, in cui l’u
va protagonista è l’aromatica glera, generalmente le bollicine sono molto immediate, semplici, gustose e versatili, utilizzabili sia come aperitivo sia in abbinamento a piatti non complessi della cucina marinara o antipasti poco strutturati.

Esistono tre scenari diversi legati a questo spumante, il primo, a DOCG, è uno dei panorami vitivinicoli più mozzafiato dello Stivale, le colline del Conegliano-Valdobbiadene, in provincia di Treviso. Nominato di recente paesaggio Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco, è caratterizzato da un susseguirsi di verdi, alti e ripidissimi colli esposti a sud. In questi suoli sabbiosi, formati da antichi fondali marini, nasce Il Prosecco più classico, quello molto aromatico, con la nota di pera Williams in primo piano. Vicino a S. Pietro di Barbozza troviamo una perla enologica, Cartizze, il cru della denominazione Prosecco Superiore, rappresentata da una piccola e preziosa collina di appena 100 ettari. La sua bellezza toglie il fiato, il suo fascino è senza tempo. Questo è il Prosecco più ricco, corposo e denso.
Scendendo a sud del Piave, troviamo il secondo territorio, Asolo, DOCG anche questa, la Città dei Cento Orizzonti come la definì il Carducci, per la prospettiva di colline che sembrano non finire mai. Qui le radici della vite affondano in marne molto minerali, dal tipico colore rosso, modellate da millenni di erosione naturale. È il Prosecco più sapido e strutturato.

Infine come terza tipologia esiste il discusso Prosecco DOC, la cui vastissima area produttiva si estende anche alle aree pianeggianti, in ben 5 province venete e 4 friulane. Questo è il vino spumante dei grandi numeri, ogni anno in aumento, molto utilizzato anche nella mixology. Qualcuno si chiederà cosa abbia a che fare il Friuli-Venezia Giulia con il Prosecco, ebbene fin dai tempi dei Romani esisteva il “vino Pucino” proveniente proprio dalle colline friulane-triestine, dove, ancora oggi, è presente una località che si chiama appunto Prosecco.

Valentino Tesi

Articolo pubblicato sulla Guida del Corriere della Sera “Bollicine Bere Bene per le Feste” (dicembre 2022)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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